Quell'altro mio fratello

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Scritto da Oreste

 

Claude Lorraine-Partenza di Ulisse dalla terra dei Fenici 

Seduto al tavolino, mentre aspetto i miei amici per la consueta partitella del venerdì sera, distrattamente il mio sguardo si posa sulle immagini trasmesse dal telegiornale della sera.

Volti stanchi, provati dalla lunga traversata, razze diverse con in comune la voglia di scappare da una guerra ingiusta. Ingiusta, che parola strana per definire una guerra, come se esistessero guerre giuste. E il mio pensiero torna indietro nel tempo. Il bar è sempre lo stesso, solo il televisore è cambiato, allora era in bianco e nero e la RAI nata da poco, trasmetteva su un unico canale, oggi come allora, scene di guerra e di gente disperata.

E nella mia mente si affaccia un ricordo che il tempo non è riuscito a cancellare.

 

Dicevano di lui che veniva dall'Algeria, che non sapeva dire una parola. Nella piazza del mercato era accerchiato da gente che lo copriva di frizzi. Qualcuno più compassionevole di altri diceva:

-Non è normale;

Altri gridavano:

-E' un animale. Cosa aspettate a cacciar via questo idiota.

I suoi capelli incolti gli cadevano sulla fronte come stoppa, se ne stava seduto sui gradini del sagrato della chiesa, rannicchiato con le ginocchia a sfiorargli la fronte.

-E' il diavolo che gli impedisce di camminare a testa alta.

Il curato scambiò due parole con la perpetua che sparì per tornare subito dopo con una brocca di latte tra le mani. Il curato gli tese la brocca il cui contenuto fu svuotato in un sol fiato, segno di giorni di privazione.

-Lo si dovrebbe abbeverare alla stalla, nella mangiatoia, costui sembra Satana incarnato.

Mio padre, maestro nella scuola elementare del paese andò verso di lui tendendogli le braccia, incurante del brusio della folla che si era radunata e dei commenti non proprio piacevoli. Quando gli fu vicino, gli parlò dolcemente. Lo straniero mormorò un nome che suonava così bene al mio orecchio di bambino un nome che evocava in me immagini di terre lontane ed esotiche.

-Mi chiamo Rachid, riuscì a balbettare.

Mio padre vincendo la naturale ritrosia da povero animale braccato, convinse Rachid a seguirlo fino a casa. Mia madre lavò i suoi abiti, gli fece fare un bel bagno ristoratore e gli tagliò i capelli.

Mio padre gli insegnò a parlare la lingua, a scrivere, leggere e far di calcolo.

I miei genitori dicevano di lui:

-Questo ragazzo è un vero prodigio!

La mia famiglia possedeva un piccolo appezzamento di terreno, lasciato incolto dopo la morte di mio nonno, ci lavorava Rachid. Quell'anno i nostri raccolti furono buoni, dopo le umide giornate d'autunno, i paesani quando passavano di li per rientrare nelle loro case dopo una giornata di lavoro, ci maledicevano dall'invidia.

Dopo il Natale, le nostre uscite divennero sempre più rare,stavamo rintanati in casa in attesa della primavera, finché una sera di gennaio soffocata da una spessa nebbia, Rachid non rientrò per i pasti.

Mio padre brontolò esasperato:

-Ma insomma si può sapere cosa fa Rachid, come mai è così in ritardo?

 

Lo trovarono il mattino dopo riverso nella neve, dove l'unica nota di colore era il rosso del suo sangue. Disteso lungo il breve percorso che dal campo portava verso casa.

I suoi occhi non riflettevano la paura, ma solamente un infinito stupore e l'infinito dispiacere di essere odiato.

I colpevoli, due balordi del paese, furono assicurati alla giustizia. La condanna fu esemplare.

Il curato fece il discorso di rito e lo definì un buon diavolo.

Il campo tornò di nuovo incolto e i contadini quando passavano di li con i loro cani non ci lanciavano più maledizioni.

La vita è stata generosa con me. Il piccolo campo di Rachid è diventato con gli anni sempre più grande. Ora sono l'orgoglioso proprietario di un'azienda agricola che mando avanti con l'aiuto dei miei figli e, ancora oggi se qualcuno mi chiede se ho fratelli non posso fare a meno di pensare a quell'altro mio fratello.

 

 

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